Aggrovigliamenti in tema di truffa contrattuale

La figura della c.d. truffa contrattuale era stata originariamente delineata dalla dottrina per non escludere dall’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 640 c.p. i casi in cui non fosse riscontrabile un danno economico in senso oggettivo, ma sussistesse comunque una lesione al patrimonio dipendente da circostanze riferibili al caso concreto (e quindi collegata a una situazione soggettiva, seppure verificabile). La truffa contrattuale si ravvisava laddove la vittima, indotta in errore da artifizi e/o raggiri sulle caratteristiche di un certo bene o di una certa prestazione – o sul contenuto dell’accordo stesso – avesse stipulato un contratto versando un prezzo che, seppure adeguato, rappresentasse tuttavia una perdita, e quindi un danno consistente nel non raggiungimento dell’interesse che con il negozio avrebbe voluto soddisfare. Il profitto conseguito dal reo, quand’anche astrattamente congruo con riferimento all’oggetto della prestazione, doveva reputarsi ingiusto poiché scaturito dall’esecuzione di un contratto che non sarebbe stato concluso se l’altra parte contrattuale non fosse stata indotta in errore, mentre la lesione al patrimonio della vittima si concretizzava nel mancato conseguimento di un’utilità, in genere consistente nel non potere fruire del bene acquistato (per esempio, non potere indossare il vestito in quanto realizzato per una bambola) o delle prestazioni offerte (per esempio, non potere sottoporsi alla terapia già pagata poiché incompatibile con le proprie condizioni fisiche). Col tempo e, soprattutto, a seguito di numerosi interventi e ripensamenti giurisprudenziali (dove la concezione ‘funzionale-personalistica’ del danno rilevante ai fini dell’integrazione del reato è stata accettata e rifiutata a fasi alterne, ma infine accolta), la definizione di truffa contrattuale ha assunto una connotazione più generica, che tende ad abbracciare qualsiasi ipotesi di truffa caratterizzata da dolus in contrahendo e quindi realizzata attraverso la stipulazione di un contratto il quale, in assenza degli artifizi e/o raggiri posti in essere dal soggetto agente, non sarebbe stato concluso (si veda, per esempio Cass. Pen. Sez. II sentenza n. 47623 del 22.12.2008).

Premesso ciò, appare utile indicare gli aspetti rilevanti di questa figura delittuosa, con riferimento all’accezione attualmente in uso. Anzitutto, se si accetta che il danno, oltre che oggettivo quando derivante dall’inadempimento del soggetto agente, possa altrimenti scaturire dall’inutilizzabilità della prestazione pagata al suo giusto prezzo, il reato deve reputarsi plurioffensivo, potendo colpire tanto l’integrità patrimoniale della vittima, quanto la semplice autonomia negoziale del contraente. Inoltre, trattandosi comunque di truffa così come configurata dall’art. 640 c.p., il danno a scapito della persona offesa e l’ingiusto profitto a favore del soggetto agente devono essere conseguenza dell’errore in cui è caduta la vittima, che a sua volta deve essere stato indotto dagli artifici e/o dai raggiri del reo. Con riferimento ai raggiri, essi possono anche consistere in comportamenti positivi, come nei casi in cui vengano tempestivamente pagati dei piccoli ordinativi di merce allo scopo di ottenere la successiva consegna di cospicui ordini a pagamento dilazionato, i cui corrispettivi non verranno poi volutamente versati (in questo senso Cass. Pen. Sez. VI sentenza n. 45856 del 31.10.2016). Per completezza si osserva che in questa specifica ipotesi l’adempimento delle obbligazioni inizialmente assunte consiste in attività che, considerate nel loro insieme oltrepassano la mera dissimulazione rilevante ai sensi dell’art. 641 c.p. ai fini dell’integrazione del reato di insolvenza fraudolenta, mentre escludono direttamente la sussistenza dei presupposti richiesti dalla stessa norma incriminatrice se valutate singolarmente (posto che il pagamento tempestivo è inconciliabile con lo “stato di insolvenza”).

Proprio perché il raggiro (o l’artifizio) serve a indurre in errore la vittima, l’elemento psicologico del reato è caratterizzato dal cd. ‘dolo iniziale’ che deve essere idoneo a influire sulla volontà negoziale dell’altro contraente “falsandone, quindi, il processo volitivo avendolo determinato alla stipulazione del negozio in virtù dell’errore in lui ingenerato mediante artifici o raggiri” come ha evidenziato la Corte di Cassazione Penale Sez. II con la sentenza n. 29853 del 14.07.2016. L’opinione giurisprudenziale dominante esclude quindi rilevanza penale alle ipotesi in cui i raggiri e gli artifizi siano stati posti in essere successivamente al conseguimento del profitto: nella citata pronuncia veniva valutato il comportamento di un soggetto che, per convincere della propria solvibilità il venditore dopo che questi aveva inutilmente tentato di incassare le somme portate dai titoli di credito consegnati al momento della vendita, aveva adoperato raggiri, sicché la Corte, non comprendendo dalla lettura della sentenza impugnata se tali attività ingannatorie fossero state poste in essere in un momento successivo o anteriore alla deminutio patrimonii, si vedeva costretta ad annullare la sentenza impugnata con rinvio.

Per le medesime ragioni, in diverse occasioni la giurisprudenza ha ritenuto sussistente il reato di truffa quando, nei contratti a esecuzione continuata e differita, gli artifizi non fossero stati semplicemente finalizzati a giustificare il perdurante inadempimento, bensì a ottenere la prestazione non ancora corrisposta (nel contratto a esecuzione differita) o ulteriori prestazioni (nel contratto a esecuzione continuata), posto che la vittima non avrebbe altrimenti dato esecuzione agli accordi (si veda ad es. Cass Pen. Sez. VI sentenza n. 5579 del 13.05.1998 con riferimento al soggetto che, avendo ottenuto l’assegnazione di un alloggio popolare in locazione, aveva omesso di comunicare di essersi trasferito altrove lasciando l’abitazione a un parente).

Sempre con riferimento al momento consumativo del reato andrebbe però effettuato un raccordo con le norme civilistiche, vista la natura ibrida del concetto di truffa contrattuale: posto che l’errore rappresenta un vizio del volere che, ai sensi dell’art. 1428 c.c., è idoneo a giustificare l’annullamento del contratto qualora risulti essere essenziale (in base ai criteri determinati dall’art. 1429 c.c.) e riconoscibile dall’altro contraente, e considerato che il reato di truffa si consuma con il conseguimento di un ingiusto profitto correlato al danno altrui, finché la vittima non dia esecuzione all’obbligazione contrattuale assunta dovrebbe, a rigor di logica, ravvisarsi un tentativo di truffa. Ma può ragionevolmente parlarsi di tentata truffa contrattuale prima della conclusione del contratto? La Corte di Cassazione Sez. II, con la recentissima sentenza n. 52441 del 16.11.2017 ha confermato la condanna per tentata truffa di un tale che, per vendere un immobile già promesso in vendita, aveva celato l’esistenza di un sequestro conservativo gravante sul bene da trasferire, nonostante il contratto di vendita vero e proprio non fosse poi stato concluso per avere l’altro contraente scoperto in tempo la circostanza sfavorevole. Seppure la condotta in questione debba indubbiamente reputarsi poco commendevole, appare a chi scrive che in questo caso gli atti posti in essere dal soggetto agente non avessero in realtà integrato un tentativo penalmente rilevante e che la ‘soglia di punibilità’ sia stata eccessivamente anticipata.

Si osserva infatti che, ai sensi dell’art. 56 c. 1 c.p. per rispondere di delitto tentato quando l’azione non si compie o l’evento non si verifica non sia sufficiente che gli atti posti in essere fossero diretti a commettere il delitto, ma occorre anche che tali atti fossero idonei a portare a compimento l’azione (nei reati di condotta) o a produrre l’evento (nei reati di evento). Posto che la truffa sia un reato di evento e che l’evento debba consistere in un danno (viene infatti qualificata comunemente come ‘reato di danno’), sembra azzardato ravvisare un tentativo punibile nel caso in cui la potenziale vittima, resasi conto dell’inghippo, abbia scelto di non concludere il contratto di vendita, in quanto – pur volendo omettere la valutazione ex ante sull’adeguatezza della condotta dell’agente a trarre in inganno – in assenza di un contratto idoneo al trasferimento della proprietà (e quindi anche in presenza di un preliminare, il quale non ha efficacia reale, ma meramente obbligatoria) gli atti già posti in essere non sarebbero stati idonei a procurare la perdita patrimoniale, specialmente perché la condotta utile ai fini della configurazione della truffa non proviene da una sola parte, ma da due, essendo imprescindibile la cooperazione della vittima (che, nella truffa contrattuale, si concretizza nel consenso alla stipulazione del contratto).

La discrepanza emerge con evidenza se si considera che il vincolo giuridico a efficacia reale sarebbe oltretutto suscettibile di annullamento su richiesta della parte che vi abbia interesse (ex art. 1441 c.c.) prima che il danno (consistente nella perdita del bene o del denaro) possa concretizzarsi. Si prenda infine a esempio il soggetto che, dopo avere concluso un contratto inducendo l’altro contraente in errore mediante raggiri, prima di ricevere la prestazione della vittima, a seguito di ripensamento, la rifiuti o comunque accetti di annullare il contratto su proposta del raggirato (o entrambe le cose): appunto perché, pur essendosi compiuta l’azione (composta, come si è visto, dalla condotta combinata dei due contraenti) non si è ancora verificato l’arricchimento ingiusto per volere del reo, le due ipotesi andrebbero ricondotte alla figura del recesso attivo delineata dall’art. 56 c. 4 c.p. Va da sé che, ammettendo la sussistenza del reato di truffa tentata anche in assenza di un vincolo contrattuale finalizzato alla consumazione del reato, a parità di condotta del proponente si creerebbe una disparità di trattamento tra l’ipotesi tentata in cui il vincolo si sia formato, dove al soggetto agente che ha concluso il contratto sarebbe riconosciuta la possibilità di ripensarci, ottenendo la riduzione di pena prevista dall’art. 56 c. 4 c.p., e quella in cui il soggetto agente non è nemmeno riuscito a ottenere il consenso dell’altra parte, a cui dovrebbe inevitabilmente applicarsi la maggiore pena prevista dall’art. 56 c. 1 c.p.

Quanto all’idoneità del silenzio, serbato su circostanze che avrebbero inciso in modo determinante sulla conclusione del contratto, a costituire condotta idonea a integrare il reato di truffa contrattuale, si ritiene condivisibile l’orientamento giurisprudenziale prevalente, che lo reputa penalmente rilevante nei casi in cui sussista in capo al soggetto un obbligo di informazione, poiché “anche il silenzio maliziosamente serbato su alcune circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere costituisce elemento ai fini della configurabilità del reato di truffa, trattandosi di un raggiro idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti non avrebbe dato” (Cass. Pen. Sez. VI sentenza n. 5579 del 13.05.1998). Si concorda altresì sul fatto che l’obbligo di informazione possa trovare la sua fonte anche nella responsabilità precontrattuale sancita dall’art. 1337 c.c. il quale impone alle parti di comportarsi secondo buona fede sia nello svolgimento delle trattative che nella formazione del contratto (come riconosciuto in Cass. Pen. Sez. II sentenza n. 28703 del 04.07.2013).