Praticando sport di squadra o da combattimento ti sarà occasionalmente capitato di provocare lesioni agli avversari. Tuttavia, la circostanza che la condotta violenta sia stata tenuta durante una partita o una gara non è da sola sufficiente a escludere la commissione di un reato e quindi la sussistenza di interesse punitivo da parte dello Stato. Quali sono i limiti da non oltrepassare?
1. USO DELLA VIOLENZA NELLO SPORT
2. RISCHIO CONSENTITO IN AMBITO SPORTIVO
3. ILLECITO SPORTIVO E ILLECITO PENALE
4. VINCOLO DI GIUSTIZIA SPORTIVA
5. RECENTI SVILUPPI GIURISPRUDENZIALI E FEDERALI
1. USO DELLA VIOLENZA NELLO SPORT
In ambito giurisprudenziale gli sport vengono convenzionalmente raggruppati in ‘non violenti’, quando manca qualsiasi contatto fisico tra gli avversari, ‘eventualmente violenti’, dove vi è un contatto fisico che può causare lesioni o traumi, e ‘necessariamente violenti’, se l’uso della violenza fa parte della natura stessa del gioco.
Se si considera che l‘attività sportiva non è espressamente tutelata a livello costituzionale, viene spontaneo chiedersi perché in questo ambito la violenza assuma solo occasionalmente rilevanza penale, posto che, di converso, l’art. 32 Cost. tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Un indizio potrebbe trarsi dall’art. 43 cod. pen., ai sensi del quale si consuma un delitto colposo (quale può essere, appunto, il reato di lesioni) quando l’evento delineato dalla norma incriminatrice, pur non essendo voluto dall’agente, si verifica a causa di “negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
In effetti, ogni attività sportiva prevede il rispetto di regole di gioco, tecniche e comportamentali, finalizzate, tra l’altro, a minimizzare i pericoli che potrebbero in astratto concretizzarsi a danno dei giocatori: praticando un determinato sport ti impegni ad attenerti alle norme che lo regolano e al tempo stesso accetti il rischio che possano verificarsi alcuni eventi dannosi, ragionevolmente prevedibili, connaturati appunto alle modalità di svolgimento del gioco e, dunque, al livello di interazione ammesso tra i partecipanti.
2. RISCHIO CONSENTITO IN AMBITO SPORTIVO
La giurisprudenza ha dunque delimitato la punibilità di condotte che, in ambiti differenti, sarebbero antigiuridiche elaborando il concetto di rischio consentito: questa scriminante rileva rispetto a quelle attività scientifiche, produttive o di comune utilità, che pur essendo lecite sono pericolose, comportando rischi che possono essere ridotti, ma non eliminati. Anche nell’esercizio dell’attività sportiva viene riconosciuta un’area di impunità in virtù di questa causa di giustificazione non codificata e il suo fondamento giuridico è stato genericamente ravvisato nel “preminente rilievo che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport, sia sul piano individuale, con riferimento a beni attinenti al valore della persona in sé, che in proiezione sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost., con riferimento alle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità” (Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 17923 del 29.04.2009).
3. ILLECITO SPORTIVO E ILLECITO PENALE
Negli sport che consentono l’uso di forza fisica in situazioni di contatto tra i contendenti i contorni dell’area di impunità vengono dunque delimitati dal rispetto delle regole di gioco: se il pregiudizio alla persona è avvenuto in conseguenza di una condotta agonistica rispettosa delle norme cautelari proprie della disciplina, non possono esservi risvolti penali. Si cade altresì nell’ambito dell’irrilevanza penale quando la violazione delle regole di gioco che ha cagionato l’evento lesivo è stata involontaria, perché finalisticamente inserita nel contesto dell’attività sportiva (in questo senso, Cass. Pen. Sez. V, sent. n. 14685 del 12.05.2020): in tal caso si configurerebbe un mero illecito sportivo.
Rilevanti per l’ordinamento statale sono, di converso, le condotte lesive che vengono poste in essere violando volontariamente le norme che regolano la disciplina praticata e possono a loro volta suddividersi in illeciti penali colposi e dolosi: la seconda ipotesi si ravvisa quando il comportamento non consentito, oltre a essere voluto, è avulso dalla dinamica agonistica (Cass. Pen. sent. n. 3144 del 23.01.2019), mentre l’elemento psicologico si arresta al livello della colpa se l’infrazione, pur essendo volontaria, è comunque riconducibile all’azione di gioco. La corte di legittimità ha peraltro recentemente precisato che “la gravità del rischio – connessa ai beni della vita in gioco – fa sì che la liceità di esso non escluda né limiti la responsabilità dell’agente, ma anzi aggravi il dovere, da parte sua, di adottare tutte le cautele necessarie” (Cass. Pen. Sez. IV sent. n. 42867 del 18.10.2019).
4. VINCOLO DI GIUSTIZIA SPORTIVA
Ti sarai già chiesto se il divieto di adire le vie legali previsto dallo statuto della federazione o dell’associazione con cui sei tesserato ti impedisca di querelare chi ti ha provocato lesioni durante la partita, o se comunque tale atto di impulso sia subordinato al previo esaurimento di tutti i gradi di giudizio esperibili a livello endofederale (attraverso i c.d. organi di giustizia sportiva), o se, ancora, ti occorra un’autorizzazione per procedere in tale direzione.
Al riguardo occorre premettere che le clausole statutarie che limitano, ritardano o vietano il ricorso alla giustizia statale trovano il loro fondamento giuridico nell’art. 2 del D.L. 220/2003 conv. in L. 280/2003, il quale stabilisce che “è riservata all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto (…) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione e applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive”. La ratio della norma si rinviene nel carattere sostanzialmente privato dell’ordinamento sportivo e, dunque, nel regime di autonomia negoziale che lo caratterizza, a cui si è liberi di aderire mediante il tesseramento.
È però realistico pensare che un sistema sottordinato a quello statale (visto che il primo esiste in quanto ammesso e riconosciuto dal secondo) possa espandersi al punto da comprimere la potestà punitiva dello Stato e, con essa, la tutela che viene riconosciuta alla vittima del reato? Il tenore dell’art. 1 del medesimo D.L. 220/2003 che, nell’enunciare i principi generali, precisa: “i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo” condurrebbe a una risposta negativa, ma i giudici federali, per anni, non hanno rinunciato a infliggere sanzioni agli associati che si erano rivolti allo Stato per ottenere la punizione del reo e il risarcimento dei danni patiti.
5. RECENTI SVILUPPI GIURISPRUDENZIALI E FEDERALI
In ambito penale, la giurisprudenza di legittimità aveva inizialmente manifestato una mera indifferenza per i vincoli di giustizia derivanti dall’adesione a federazioni o associazioni “non potendo ovviamente comportare alcun impedimento all’accertamento di fatti penalmente rilevanti che abbiano a verificarsi nello svolgimento di eventi sportivi” (Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 21301 del 27.05.2011). La stessa si è poi opposta apertamente a un’interpretazione estensiva della norma che sancisce l’autonomia della potestà federale, affermando che “alcuna situazione di pregiudizialità o preclusione può esserci fra le decisioni assunte in sede sportiva e quelle conseguenti ad una azione penale esercitata nell’ambito di un procedimento giurisdizionale” (Cass. Pen. Sez. III sent. n. 36350 del 09.09.2015). È stato infatti evidenziato che, mentre la sanzione disciplinare non esercita alcuna efficacia al di fuori dell’ordinamento particolare, quella penale punisce la violazione di regole poste a presidio di beni comuni.
Ciononostante, i tribunali federali hanno insistito col ritenere che il limite oltre il quale l’atto di impulso processuale avrebbe dovuto reputarsi illegittimo poggiasse sulla “ripartizione fra reati perseguibili d’ufficio ovvero a querela di parte” (Tribunale Federale Territoriale C.R. Calabria, FIGC-LND, com. uff. n. 74 del 05.12.2018), e, nei casi riconducibili alla seconda ipotesi hanno continuato a irrogare significative sanzioni disciplinari. Con la Decisione n. 26 del 05.06.2020 il Collegio di Garanzia del Coni si è però finalmente adeguato all’orientamento della Corte, osservando che “la materia penale esula dalla giurisdizione sportiva non essendo quest’ultima in grado di garantire i diritti e le posizioni di diritto soggettivo del soggetto leso” e concludendo che “l’esercizio del diritto di querela non può essere limitato né subordinato ad alcuna autorizzazione da parte degli Organi federali”. La materia penale sembra quindi essersi completamente affrancata dal vincolo di giustizia sportiva, dopo un lungo periodo di colonizzazione.