È legittimo il licenziamento del lavoratore per possesso di sostanze stupefacenti? Come al solito la risposta esatta è ‘dipende’. Da cosa? Dipende da diversi fattori e, in primo luogo, dalla gravità della condotta contestata: sappiamo infatti che la semplice detenzione di stupefacenti non integri automaticamente un reato, potendo configurarsi un mero illecito amministrativo se sussistono i presupposti per ritenere che la sostanza sia destinata all’uso personale, anziché alla cessione, e rilevando invece penalmente la detenzione ai fini di spaccio. Al riguardo, i criteri discretivi per accertare la destinazione dello stupefacente sono da rinvenirsi nell’art. 75 c. 1-bis lett. A del D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 che impone di considerare la quantità detenuta, le modalità di presentazione del prodotto (incluso il suo confezionamento), ma anche più genericamente “altre circostanze dell’azione”.
Ebbene, è sicuramente possibile licenziare il dipendente sorpreso a spacciare sul luogo di lavoro, trattandosi di comportamento palesemente in conflitto con gli interessi datoriali (materiali e morali) e quindi idoneo a configurare una giusta causa di recesso ai sensi dell’art. 2119 c.c. È legittimo anche il licenziamento del lavoratore che abbia riportato una condanna quale associato di un’organizzazione dedita al traffico di stupefacenti (ipotesi tutt’altro che infrequente) e in questo caso non rileverebbe l’estraneità della condotta illecita all’ambiente lavorativo (Cass. Civ. Sez. Lav. Sent. n. 24745 del 19.10.2017), potendosi ravvisare la lesione del rapporto fiduciario con il datore di lavoro alla luce della forte connotazione negativa caratterizzante il reato per il quale è intervenuta la condanna, che per la sua gravità impedirebbe la prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro. In questa ipotesi il licenziamento è ammesso a prescindere dall’irrevocabilità della sentenza penale (Cass. Civ. Sez. Lav. Ord. n. 503 del 11.01.2019) in quanto “il principio di non colpevolezza valido fino alla condanna definitiva, sancito dall’art. 27 Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato e non può, quindi, applicarsi in via analogica o estensiva all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna” (Cass. Civ. Serz. Lav. Sent. n. 13955 del 19.06.2014 e, più recentemente, Cass. Civ. Sez. Lav. Ord. n. 6937 del 20.03.2018 che ha ammesso il licenziamento a seguito di condanna non definitiva indipendentemente da difformi previsioni del CCNL di riferimento).
La giurisprudenza sembra però oscillare nei casi di impugnazione del licenziamento concernenti lavoratori che, seppure condannati per il reato di cui all’art. 73 D.P.R. 309/90 abbiano svolto questa seconda attività ‘in autonomia’, ossia senza essere inseriti in organizzazioni criminali e al di fuori del contesto lavorativo. In linea di principiò può affermarsi che “il concetto di giusta causa non sia limitabile all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma sia estensibile anche a condotte extralavorative, che, tenute al di fuori dell’azienda e dall’orario di lavoro e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti” dovendosi attribuire rilevanza anche alle “norme dell’etica corrente e del comune vivere civile” (Cass. Civ. Sez. Lav. Sent. n. 26679 del 10.11.2017).
Tuttavia, mentre in alcuni casi è stato valorizzato il fatto che “il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma anche, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o comprometterne il rapporto fiduciario” (come in Cass. Civ. Sez. Lav. Sent. n. 16524 del 06.08.2015, che ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente condannato per detenzione ai fini di spaccio relativamente a fatti accaduti mentre si trovava in ferie), in altre occasioni si è rilevato che “la giusta causa di licenziamento per fatti extralavorativi deve comunque incidere sull’elemento fiduciario correlato all’attività lavorativa svolta e alle mansioni affidate al lavoratore” (si veda Cass. Civ. Sez. Lav. Ord. n. 22194 del 12.09.2018, che ha confermato l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore condannato per avere spacciato presso la sua abitazione).
In realtà l’eterogeneità delle pronunce si spiega con la diversa rilevanza che assume il fatto illecito rispetto alla categoria lavorativa di riferimento cui appartiene il lavoratore interessato dal provvedimento espulsivo: l’art. 30 c. 3 della Legge 4 novembre 2010 n. 183 prevede infatti che, nel valutare le motivazioni poste alla base del licenziamento, il giudice debba tenere conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, ovvero nei contratti individuali di lavoro, se predisposti con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione (per esempio, Cass. Civ. Sez. Lav. Sent. n. 13926 del 05.06.2017 ha confermato la legittimità del licenziamento del dipendente condannato per spaccio con sentenza passata in giudicato dopo avere verificato che il provvedimento espulsivo fosse stato disposto attenendosi ai criteri fissati dal CCNL per il settore Telecomunicazioni). Non sempre però è possibile rinvenire indicazioni utili a orientare il giudizio di proporzionalità: in mancanza di specificazioni a livello di contrattazione collettiva e/o individuale, o in caso di genericità delle tipizzazioni di giusta causa, l’incidenza della condotta penalmente rilevante deve essere individuata in relazione alla specifica mansione affidata al lavoratore (in questo senso Cass. Civ. Sez. Lav. Ord. n. 22194 del 12.09.2018).
Infine si rileva che, laddove il lavoratore venga sorpreso in azienda una sola volta in possesso di sostanza stupefacente per uso personale sia possibile escludere la legittimità del licenziamento, se egli non svolge mansioni che contemplino attività per le quali il consumo di queste sostanze rappresenti un rischio per la sicurezza propria e altrui (e anche in questo caso, se non si riscontra uno stato di alterazione psicofisica, appare congrua una sanzione disciplinare meno afflittiva).
Tuttavia, la sola positività ad accertamenti tossicologici può giustificare il licenziamento dei conducenti di veicoli, di addetti alla guida di macchine per la movimentazione e di chi è abilitato allo svolgimento di lavori pericolosi, ossia dei lavoratori obbligati per legge a sottoporsi ad accertamenti sanitari preventivi e periodici: si è affermato infatti che “viola certamente il minimum etico il consumo di sostanze stupefacenti a opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite a rischio” e che il consumo di droghe possa essere contestato quale addebito disciplinare in sé “sull’evidente presupposto della sua idoneità, avuto riguardo alle specifiche mansioni espletate dal lavoratore, a compromettere irrimediabilmente l’elemento fiduciario” (Cass. Civ. Sez. Lav. Ord. n. 12994 del 24.05.2018). Del resto, risponde penalmente ai sensi dell’art. 125 D.P.R. 309/1990 il datore di lavoro che non faccia cessare dalla mansione a rischio il dipendente nei cui confronti sia stata accertata una vera e propria tossicodipendenza, per cui la connessione tra il consumo di droghe e la lesione del rapporto fiduciario è necessariamente più stretta.