È un cliché: stiamo soggiornando in una località balneare e ogni mattina per recarci in spiaggia, giunti sul lungomare, ci imbattiamo in un consistente numero di venditori ambulanti che esibiscono borsette, cappellini e orologi le cui fogge ripropongono con tutta evidenza i modelli esposti nelle vetrine dei negozi di lusso, ovviamente a prezzi nettamente inferiori. Come dobbiamo comportarci? Cediamo alla tentazione o lasciamo perdere? Ovviamente il problema non si riduce alla difficoltà di ottenere la riparazione o la sostituzione del prodotto eventualmente difettoso da parte del commerciante clandestino in assenza di uno scontrino, ma concerne la responsabilità discendente dall’acquisto e dal possesso di merce contraffatta. Cosa si intende per contraffazione? Entro quali limiti un bene è da considerarsi contraffatto e non semplicemente ispirato allo stile di un famoso designer? Cosa rischio acquistando un oggetto riportante un marchio contraffatto?
Procedendo con ordine, una soddisfacente definizione di contraffazione è ricavabile da una recente pronuncia in materia civile: per Cass. Civ. Sez. I Ord. n. 8577 del 06.04.2018 si ravvisa la contraffazione del marchio quando vengono illecitamente riprodotti “quegli elementi, costitutivi e caratteristici, che adempiono alla specifica funzione di identificare il prodotto contrassegnato nella sua consistenza merceologica e nella sua provenienza imprenditoriale”, per cui, da un punto di vista tecnico, “l’individuazione degli elementi caratterizzanti il marchio presuppone l’individuazione del suo carattere forte o debole in rapporto con la presenza di elementi espressivi, denominativi ovvero astratti, metaforici e traspositivi (in funzione grafica o fonetica), la determinazione della sua struttura semplice o complessa, la definizione del livello comportamentalistico e valutativo dei destinatari del prodotto”. Nella stessa ordinanza viene oltretutto precisato che il giudizio accertativo della contraffazione, previo apprezzamento di tutti gli elementi suddetti in relazione ai marchi contrapposti, debba concretarsi in una “valutazione globale e sintetica” in ordine alla loro confondibilità e quindi alla loro reciproca interferenza. Quanto al livello di originalità richiesto perché il marchio possa ricevere protezione, già Cass. Civ. Sez I Sent. n. 14684 del 25.06.2007 aveva chiarito che la qualificazione del segno distintivo come marchio debole (ossia evocativo/descrittivo del prodotto che contraddistingue) non impedisse il riconoscimento della tutela nei confronti della contraffazione, in presenza dell’adozione di mere varianti formali inidonee a escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituiva l’aspetto caratterizzante, ossia il nucleo cui era affidata la funzione distintiva. Va tuttavia tenuto presente che la contraffazione di marchi possa configurarsi solamente tra prodotti identici o affini, ossia appartenenti allo stesso genere, in relazione alla loro intrinseca natura, alla clientela cui sono destinati e ai bisogni che tendono a soddisfare. Per valutare la sussistenza di un’affinità rilevante ai fini della tutela del marchio occorre dunque “che i beni o i prodotti di cui si parla siano ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche o quanto meno tra loro strettamente correlate, tali per cui l’affinità funzionale esistente tra quei beni o prodotti e tra i relativi settori merceologici induca il consumatore naturalmente a ritenere che essi provengono dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dal dato meramente estrinseco costituito dall’eventuale identità dei canali di commercializzazione” (si veda Cass. Civ. Sez. I Sent. n. 4386 del 04.03.2015).
Passando alle scelte punitive adottate dal legislatore per contrastare il fenomeno della contraffazione, nel Titolo VII del codice penale si rinvengono due delitti contro la fede pubblica concernenti la violazione di marchi e segni distintivi: l’art. 473 rubricato Contraffazione, alterazione, o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni e l’art. 474 rubricato Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi. L’art. 473 c.p. punisce la contraffazione o l’alterazione di marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, di prodotti industriali, nonché l’utilizzo di tali marchi o segni alterati o contraffatti, purché la condotta sia tenuta da chi possa conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, ma sanziona anche – e più gravemente – la contraffazione o l’alterazione di brevetti, disegni o modelli industriali, nazionali o esteri, nonché l’utilizzo di brevetti, disegni o modelli contraffatti o alterati. L’art. 474 c.p., non applicabile a chi abbia concorso nella commissione del reato di contraffazione o alterazione, punisce due distinte condotte, ossia (1) l’introduzione nel territorio dello Stato di prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati e (2) la detenzione per la vendita o la messa in vendita o comunque la messa in circolazione di tali prodotti; nei due casi la norma richiede per la configurabilità del reato la sussistenza del dolo specifico consistente nel “fine di trarne profitto”. Sia per il reato di cui all’art. 473 c.p. che per quello di cui all’art. 474 c.p. è richiesta, come condizione di punibilità, l’osservanza delle norme sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale previste dalle leggi interne, dai regolamenti comunitari e dalle convenzioni internazionali: ne deriva che il contraffattore non possa essere perseguibile se la procedura per il riconoscimento del marchio, del segno, del modello, del brevetto o del disegno non risulti essersi positivamente esaurita con l’ottenimento del titolo di privativa prima della commissione del fatto e ciò a prescindere dall’anteriorità della presentazione della domanda (così Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 9340 del 27.02.2013 e, più recentemente, Cass. Pen. Sez. I Sent. n. 33079 del 28.07.2016).
Essendo ambedue i delitti considerati dalla giurisprudenza reati di pericolo (si veda Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 28956 del 17.07.2012 per l’art. 473 c.p. e Cass. Pen. Sez. II Sent. n. 55079 del 11.12.2017 per l’art. 474 c.p.) le norme penali colpiscono tanto la contraffazione in senso stretto del marchio, ossia la riproduzione integrale dello stesso in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, quanto l’alterazione del marchio e quindi la sua falsificazione parziale (la risalente distinzione è tratta da Cass. Pen. Sez. VI n. 1217 del 25.10.1972). A questo proposito va evidenziato che le recenti pronunce delle corti di merito e di legittimità non hanno escluso l’attitudine offensiva del falso grossolano, in quanto il bene tutelato in via principale e diretta dalle fattispecie incriminatrici esaminate non va individuato nella libera determinazione dell’acquirente, bensì nella pubblica fede, “intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione”, come ha specificato Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 10088 del 06.03.2018 concludendo che per la configurazione del delitto di cui all’art. 473 c.p., trattandosi appunto di reato di pericolo, “non occorre la realizzazione dell’inganno e nemmeno ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno”. Parimenti, l’apposizione della dicitura ‘copia d’autore’ sulla confezione di prodotti industriali recanti marchi contraffatti non viene ritenuta sufficiente a scongiurare l’integrazione del reato di cui all’art. 474 c.p., poiché l’attitudine della falsificazione a ingenerare confusione va riferita “non solo al momento dell’acquisto, ma anche a quello della successiva utilizzazione” (Cass. Pen. Sez. II Sent. n. 25911 del 07.06.2018).
È anche opportuno ricordare che, nel caso in cui i marchi e i segni distintivi, pur non potendo reputarsi contraffatti o alterati, possano indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera dell’ingegno o del prodotto industriale messo in vendita o in circolazione, potrà ravvisarsi il delitto contro l’economia previsto dal Titolo VIII del codice penale all’art. 517, rubricato Vendita di prodotti industriali con segni mendaci, per l’integrazione del quale non è peraltro richiesta la registrazione del titolo di proprietà industriale (come ricorda Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 31482 del 02.08.2007). Va comunque rilevato che nella prassi in genere la giurisprudenza tenda a ritenere integrato il delitto in questione (anch’esso qualificato come reato di pericolo), anziché quello di cui all’art. 474 c.p. qualora non ravvisi “la sostanziale identità del logo riprodotto rispetto a quello originale” (in questo senso Cass. Pen. Sez. II Sent. n. 27376 del 31.05.2017) ma ritenga che l’acquirente possa confondersi “anche solo attraverso un esame frettoloso e superficiale del prodotto messo in vendita, quale è quello compiuto dal consumatore di media diligenza e di non particolare diligenza” (come precisa Cass. Pen. Sez. II Sent. n. 20600 del 19.05.2015).
Detto questo, senza dilungarsi ulteriormente, la risposta alla domanda ‘ma il consumatore che acquista questi prodotti contraffatti, alterati o ingannevoli risponde del delitto di ricettazione di cui all’art. 648 c.p. per avere ricevuto beni provenienti da delitto?’ è no, perché il legislatore, ispirandosi alla contravvenzione di acquisto di cose di sospetta provenienza di cui all’art. 712 c.p. (che si avvicenda al reato di ricettazione nel caso in cui non sia riscontrabile un atteggiamento doloso di chi riceve la cosa) ha scelto di ridurre l’ambito applicativo di tale norma penale, introducendo la speciale sanzione amministrativa di cui all’art. 1 c. 7 D.L. 14.03.2005 n. 35 conv. in L. 14.05.2005 n. 80. La disposizione in questione, avendo occasionato sin da subito difficoltà interpretative e applicative di non scarso rilievo, ha subìto diversi ritocchi nel corso del tempo, dapprima a opera dell’art. 2 c. 4-bis D.L. 30.09.2005 n. 203 conv. in L. 02.12.2005 n. 248, immediatamente seguito dall’art. 5-bis D.L. 30.12.2005 n. 272 conv. in L. 21.02.2006 n. 49 e infine dall’art. 17 Legge 23.07.2009 n. 99 cui si deve la sua vigente formulazione.
Attualmente, l’art. 1 c. 7 L. 80/2005 prospetta una sanzione amministrativa pecuniaria da € 100 fino a € 7.000 per “l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale”, da applicarsi – per espresso richiamo normativo – ai sensi della Legge 24.11.1981 n. 689 e quindi nel rispetto del principio di specialità sancito dall’art. 9 della legge medesima, il quale prevede che “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”, ossia quella che regola la materia o la particolare situazione in modo più specifico. La prevalenza della norma amministrativa speciale su quella penale è stata confermata dalla pronuncia della Cassazione Penale a Sezioni Unite n. 22225 del 08.06.2012 che, dovendo stabilire se potesse rispondere di ricettazione chi avesse acquistato per uso personale un orologio contraffatto, ha enunciato il seguente principio di diritto “non può configurarsi una responsabilità penale per l’acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale”.
Per quanto attiene alle circostanze rilevanti ai fini dell’accertamento della responsabilità in capo all’acquirente finale, trascurando l’insignificante particolare che, stante il dettato normativo, l’applicazione della disposizione in esame potrebbe astrattamente rendere sanzionabile persino l’acquisto di un prodotto originale, laddove venga conseguito a un prezzo molto basso o sia venduto da persona in particolari condizioni (non essendo richiesto l’accertamento della contraffazione), va osservato che la conoscenza o meno della falsità del prodotto da parte del compratore, e quindi la sussistenza di dolo o colpa al momento della commissione del fatto, sia del tutto indifferente. Ciò in virtù dell’art. 3 L. 689/1981 che, con riferimento all’elemento soggettivo chiarisce che “nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa” escludendo la sola ipotesi di errore sul fatto quando l’errore non sia determinato da colpa dell’agente.
Il legislatore ha comunque voluto affiancare alla suddetta sanzione pecuniaria la confisca amministrativa dei beni falsi, in linea con quanto stabilito dall’art. 474-bis c.p. (che, con riferimento alle condotte di cui agli articoli 473 e 474 c.p. impone la confisca delle cose “che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono l’oggetto, il prodotto, il prezzo o il profitto, a chiunque appartenenti”, o nel caso in cui ciò non sia possibile, la confisca per equivalente) e dall’art. 17 c. 3 L. 23.07.2009 n. 99 (che prevede la confisca amministrativa dei locali ove vengono prodotti, depositati o vendute le merci contraffatte), per cui il compratore, una volta scoperto, perderebbe anche la disponibilità del prodotto illegittimamente acquistato.
In ogni caso, l’esistenza di questo illecito amministrativo non esclude a priori che il compratore possa incorrere in situazioni penalmente rilevanti: difatti, se l’acquisto del prodotto contraffatto è avvenuto all’estero il consumatore potrebbe comunque rispondere del reato di cui all’art. 474 c.p. che come si è visto punisce l’introduzione della merce contraffatta nel territorio dello Stato (poiché il “fine di trarne profitto” richiesto dalla disposizione penale viene ravvisato dalla giurisprudenza in una qualsiasi utilità o godimento che il soggetto agente intenda conseguire tramite la propria condotta). Si richiama a questo proposito Cass. Pen. Sez. II Sent. n. 52950 del 21.11.2017 che, ritenendo il citato principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite non indistintamente applicabile a qualsiasi reato in materia di contraffazione, ha escluso la sussistenza di un rapporto di specialità tra il fatto tipico di cui all’art. 1 c. 7 L. 80/2005 e quello di cui all’art. 474 c. 1 c.p., evidenziando la reciproca autonomia strutturale tra l’illecito amministrativo e il reato di introduzione nel territorio dello Stato di prodotti con segni falsi. La corte di legittimità, conformandosi a precedenti pronunce, ha infatti posto l’accento sulla circostanza che “la condotta tipizzata dall’art. 474 comma 1 non presuppone necessariamente l’acquisto del bene e non trova in ogni caso alcun riscontro nella fattispecie configurata dalla norma incriminatrice amministrativa. Né per acquistare un prodotto contraffatto è necessario introdurlo illecitamente nello Stato” (citando Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 6354 del 16.02.2016 che già si era espressa in questo senso). È stata inoltre ricondotta al reato di ricettazione la detenzione di beni contraffatti destinati a essere regalati, in quanto ne sarebbe stato garantito l’uso e il consumo da parte di terzi, facendo venire meno il requisito scriminante dell’uso personale (Cass. Pen. Sez. II Sent. n. 3000 del 22.01.2016).
Da ultimo, a prescindere dall’assenza di risvolti penali, sconsiglio comunque di indulgere in acquisti di questo genere contando sulla scarsa possibilità di essere scoperti, in quanto il già citato art. 17 L. 99/2009 ha modificato l’art. 9 c. 1 lett. A della Legge 16.03.2006 n. 146 di ratifica di Convenzione e Protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato, introducendo la possibilità per gli ufficiali della Polizia di Stato, dell’Arma dei Carabinieri e del Corpo della Guardia di Finanza di compiere operazioni sotto copertura per acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti dagli articoli 473 e 474 c.p.: trattandosi di reati strettamente collegati all’illecito amministrativo di cui all’art. 1 c. 7 D.L. 14.03.2005 n. 35 conv. in L. 14.05.2005 n. 80 – il quale presuppone, almeno implicitamente, la previa commissione dei suddetti delitti da parte di terzi – la possibilità di trovarsi nel luogo sbagliato al momento sbagliato è tutt’altro che ipotetica.