La disciplina della convivenza: per non lasciare nulla al caso

Anche anteriormente all’entrata in vigore della Legge 20.05.2016 n. 76 (c.d. Legge Cirinnà), le formazioni sociali di tipo familiare non suggellate dal vincolo giuridico del matrimonio, ma caratterizzate comunque da una convivenza more uxorio avevano ricevuto alcune embrionali forme di tutela da parte dell’ordinamento italiano. Per esempio, con la sentenza n. 404 del 07.04.1988 la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 c. 1 L. 27.07.1978 n. 392 per contrasto con gli articoli 2 e 3 Cost. nella parte in cui non aveva previsto tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio del conduttore in caso di morte dello stesso. Del pari, il codice di procedura penale (c.d. Codice Vassalli), ossia il D.P.R. n. 447 emanato il 22.09.1988 ed entrato in vigore il 24.10.1989, aveva riconosciuto sin dalla data della sua approvazione la facoltà del convivente di astenersi dal deporre “limitatamente ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza” (art. 199 c.p.p.).

Poi, a distanza di un decennio, in relazione all’esigenza di tutelare i figli nati fuori dal matrimonio nel rispetto di quanto sancito dall’art. 30 Cost., la Corte Costituzionale era arrivata ad affermare, con la sentenza n. 166 del 13.05.1998 che “l’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio, allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve quindi regolarsi mediante l’applicazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio a prescindere dalla qualificazione dello status” contemplando dunque l’eventualità che all’ex convivente non proprietario dell’abitazione fosse assegnata la casa per crescere i figli allo stesso affidati.

Più di recente, la Corte di Cassazione aveva ammesso la possibilità per il convivente more uxorio estromesso dall’unità abitativa occultamente o violentemente a opera del partner di avvalersi della tutela possessoria e quindi dell’azione di reintegrazione di cui all’art. 1168 c.c., negando pertanto che la detenzione del convivente dovesse reputarsi equivalente a quella dell’ospite cui invece non è riconosciuta tale facoltà ai sensi dell’art. 1168 c. 2 c.c.. Il giudice di legittimità aveva infatti rilevato che “il canone della buona fede e della correttezza, dettato a protezione dei soggetti più esposti e delle situazioni di affidamento, impone al legittimo titolare che, cessata l’affectio, intenda recuperare com’è suo diritto, l’esclusiva disponibilità dell’immobile, di avvisare il partner e di concedergli un termine congruo per reperire altra sistemazione” (Cass. Civ. Sez. II sentenza n. 7214 del 21.03.2013).

Un po’ alla volta al convivente erano stati riconosciuti dei diritti e, parallelamente, dei doveri, ma caratterizzati sempre da una certa contingenza e temporaneità, eccetto laddove l’esercizio del diritto fosse finalizzato alla tutela di figli minori o comunque non autosufficienti. Poi è stata promulgata la L. 76/2016 che ha riconosciuto alle coppie non-sposate-non-per-scelta la possibilità di optare per il vincolo para-coniugale dell’unione civile, con annessi diritti e doveri, escludendo quindi l’eventualità che la mancanza di tutele per i componenti di un nucleo familiare potesse dipendere da lacune normative. Ma la legge che avrebbe dovuto chiudere il cerchio ha in realtà aperto le porte a nuovi scenari: il legislatore non ha resistito e, intanto che c’era, ha imposto dei vincoli a chi, presumibilmente, avrebbe voluto evitarli scegliendo appunto di non sposarsi / non unirsi civilmente.

Così, la stessa L. 76/2016, oltre a riconoscere ai conviventi di fatto alcuni diritti che in passato erano prerogativa dei coniugi, cristallizzando più o meno consolidati orientamenti giurisprudenziali, reca anche la “disciplina delle convivenze”, con la conseguenza che i nuclei familiari di fatto, pur volendo in teoria rappresentare l’espressione di una scelta di libertà dalle regole che caratterizzano il matrimonio, siano comunque fonte di vincoli giuridici per coloro che ne fanno parte, seppure meno gravosi di quelli discendenti da un rapporto coniugale.

Si osserva anzitutto che la giurisprudenza si sia già orientata nel senso di non ritenere necessaria la dichiarazione di convivenza di fatto introdotta dall’art. 1 c. 37 L. 76/2016 ai fini dell’applicabilità delle norme contenute nella legge stessa, sul presupposto che la definizione di ‘conviventi di fatto’ offerta dall’art. 1 c. 36 L. 76/2016 prescinda da adempimenti formali: si menziona a questo proposito l’ordinanza del 31.05.2016 con cui il Tribunale di Milano, fornendo una interpretazione letterale delle nuove disposizioni normative, è giunto alla conclusione che “la dichiarazione anagrafica è strumento privilegiato di prova e non anche elemento costitutivo (…) tant’è che la dichiarazione anagrafica è richiesta dalla legge 76 del 2016 ‘per l’accertamento della stabile convivenza’, quanto a dire per la verifica di uno dei requisiti costitutivi ma non anche per appurarne l’effettiva esistenza fattuale”. Dunque, l’assenza di una dichiarazione di convivenza di fatto depositata presso il Comune di residenza non esclude la soggezione della coppia, così come definita dall’art. 1 c. 36 L. 76/2016 – e quindi costituita dadue persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile” – alle disposizioni che disciplinano la convivenza di fatto.

Fortunatamente, gli obblighi individuati da queste nuove norme sono tutto sommato poco gravosi e la temporaneità che li caratterizza non lascia presagire un significativo ‘crollo delle convivenze’. Partiamo con la previsione legislativa apparentemente più sconcertante, ossia quella che, in caso di cessazione della convivenza di fatto, ammette la possibilità per il convivente che (1) si trovi in stato di bisogno e (2) non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento di adire il giudice per ottenere dall’ex partner gli alimenti. In primo luogo deve ritenersi che, per il conseguimento di una somma a titolo di obbligazione alimentare non basti una capacità economica ridotta rispetto alle disponibilità dell’ex compagno, ma debba riscontrarsi una impossibilità attuale alla soddisfazione delle proprie esigenze primarie. Va poi rilevato che, pur contemplando questa eventualità, l’art. 1 c. 65 L. 76/2016 precisa che “in tali casi, gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell’art. 438, secondo comma, del codice civile”: il diritto a percepirli sarà dunque riconosciuto temporaneamente, in proporzione al bisogno di chi li domanda e alle condizioni economiche di chi deve somministrarli. Si è inoltre ragionevolmente evitato di sovrapporre la figura del convivente a quella del coniuge al momento del suo posizionamento nell’ordine delle persone obbligate agli alimenti dettato dall’art. 433 c.c.: pur richiamando tale disposizione – la quale individua quale primo obbligato appunto il coniuge, seguito dai figli/discendenti, dai genitori/ascendenti, dal genero/nuora, dal suocero/suocera e infine dai fratelli/sorelle – il legislatore ha stabilito che l’obbligazione alimentare dell’ex convivente sorga “con precedenza sui fratelli e sorelle” (dell’avente diritto, si intende). Pertanto l’ex compagno/a non deve corrispondere alcunché se le esigenze della parte bisognosa possono essere soddisfatte dai figli (o discendenti) o dai genitori (o ascendenti) della stessa, visto che la figura del suocero e quella del genero non sono rinvenibili nell’ambito di una convivenza.

La L. 76/2016 ha introdotto anche un significativo limite a discapito degli eredi del convivente di fatto che vogliano occupare l’immobile caduto in successione: l’art. 1 c. 42, scimmiottando il diritto di abitazione riconosciuto al coniuge dall’art. 540 c. 2 c.c., attribuisce infatti al convivente superstite il diritto di continuare ad abitare nella casa di proprietà del convivente venuto a mancare “per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni”, precisando che, nel caso in cui il convivente superstite coabiti con figli minori o disabili il diritto in questione non possa avere durata inferiore a tre anni. Il comma successivo stabilisce comunque che tale diritto si estingua prima del decorso di tali termini laddove il convivente superstite (1) cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza, oppure (2) contragga matrimonio o si unisca civilmente o instauri una nuova convivenza di fatto.

Poco criticabile, in quanto finalizzata a garantire un diritto costituzionalmente tutelato, è poi la scelta del legislatore di attribuire rilevanza al lavoro prestato stabilmente dal convivente di fatto in favore dell’impresa del partner attraverso l’introduzione dell’art. 230 ter c.c., il quale riconosce al convivente non socio e non dipendente, proporzionalmente all’attività svolta, una partecipazione agli utili e ai beni con essi acquistati, nonché agli incrementi aziendali, incluso l’avviamento.

È stato infine forgiato un nuovo negozio tipico per la disciplina dei rapporti patrimoniali della coppia, ossia il contratto di convivenza (art. 1 c. 50 e ss. L. 76/2016): tramite esso possono essere determinate la residenza e le modalità di contribuzione alla vita in comune con riferimento all’apporto economico materiale e lavorativo di ciascun convivente, ed è altresì possibile optare per il regime di comunione dei beni il quale, ai sensi dell’art. 1 c. 54 L. 76/2016 è tuttavia sempre modificabile. Ai fini della validità del contratto di convivenza è richiesto l’atto pubblico o una scrittura privata autenticata da notaio o da avvocato, sui quali incombono gli obblighi (1) di attestarne la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico e (2) di trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe. Oltre che per matrimonio o morte di uno dei contraenti, il contratto di convivenza, il quale, si badi, non può essere sottoposto a termine o a condizione ai sensi dell’art. 1 c. 56 L. 76/2016, può risolversi per mutuo dissenso o per recesso unilaterale: in entrambe le ipotesi è richiesto l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata da notaio o da avvocato e il professionista incaricato è tenuto sempre a trasmettere l’atto o la scrittura al Comune di residenza nonché, in caso di recesso unilaterale, a notificarne copia all’altra parte.

In conclusione, parlare di convivenza appare riduttivo: la L. 76/2016 sembra piuttosto delineare una forma di matrimonio attenuato.