Interpretare il testamento, tra eredità, legati e prelegati

Sapevi che in alcuni casi è possibile ricevere un lascito testamentario senza divenire erede del defunto? Probabilmente sì, specie se hai letto un mio precedente post nel quale accennavo alla differenza tra erede e legatario… Ma l’inquadramento giuridico del trasferimento mortis causa è questione di non poco conto e merita un approfondimento.

L’art. 587 c.c. definisce il testamento come “un atto revocabile con il quale taluno dispone, per il tempo in cui avrà cessato di vivere, di tutte le proprie sostanze o di parte di esse”, precisando che in esso possano comunque essere inserite disposizioni di tipo non patrimoniale (le quali tuttavia non attribuiscono status giuridico alcuno). L’attribuzione di beni di proprietà del testatore può alternativamente avere carattere universale o essere a titolo particolare: mentre nel primo caso è necessario che il beneficiario della previsione testamentaria accetti l’eredità (espressamente, tacitamente o per possesso) affinché sia data esecuzione alla volontà del defunto, nel secondo caso, trattandosi di legato, non occorre un atto di accettazione, poiché il bene entra direttamente a fare parte del patrimonio del destinatario del lascito. La titolarità del bene legato si trasmette infatti dal de cuius al legatario già al momento della morte del testatore (salva comunque la possibilità di rinunciarvi), ed egli è tenuto solamente a richiederne il possesso al soggetto onerato.

Ma all’atto pratico come possiamo distinguere un erede da un legatario? Molto genericamente l’art. 588 c. 1 c.c. spiega che, qualunque siano le espressioni e le denominazioni impiegate nella stesura del testamento, debbano ritenersi disposizioni a titolo universale quelle che “comprendono l’universalità o una quota dei beni del testatore”, mentre vadano qualificate disposizioni a titolo particolare quelle che non presentino tale caratteristica: la norma definisce dunque il legato per esclusione. Tuttavia, per ricondurre la singola attribuzione all’una o all’altra figura codicistica, sembra non potersi prescindere da un’indagine sulle intenzioni del testatore, anche in presenza di espressi riferimenti a beni determinati nell’atto di ultima volontà: al riguardo l’art. 588 c. 2 c.c. rammenta che “l’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota del patrimonio”, delineando così i contorni  – per verità un po’ vaghi – della c.d. institutio ex re certa (ossia l’istituzione di un erede attraverso l’assegnazione di uno o più beni specifici in suo favore).

La distinzione non è meramente formale, in quanto l’erede subentra pro quota anche nella posizione debitoria del defunto, mentre il legatario no (pur dovendo soggiacere alle separazioni previste dagli articoli 513 e 756 c.c. e agli oneri di cui all’art. 668 c.c.). Inoltre, in ragione della c.d. forza espansiva della institutio ex re certa, l’erede al quale sia stato destinato un bene specifico come quota del patrimonio ereditario beneficerà, sempre in proporzione alla quota individuata, anche dei beni facenti parte del relictum ma non menzionati nell’atto di ultima volontà, laddove sopravvenuti o ignorati dal testatore al momento della sua stesura (Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 12158 del 11.06.2015).

Allora, con quali criteri dobbiamo estrapolare la volontà del testatore? Quali elementi farebbero emergere la sua intenzione di assegnare un bene specifico come quota del patrimonio ereditario o meno? Deve anzitutto escludersi che la volontà del de cuius possa ricavarsi da documenti che non presentino le caratteristiche proprie del testamento: ciò che deve essere interpretato è l’atto dispositivo (o gli atti dispositivi, se vi sono più testamenti tra loro compatibili). Poi, pur trattandosi di atto unilaterale, è incontestato che l’attività interpretativa del testamento vada svolta nel rispetto dei criteri ermeneutici fissati dal legislatore per l’interpretazione dei contratti negli articoli 1362 e ss. c.c., in quanto applicabili.

Fatte queste premesse, la giurisprudenza è univoca nell’affermare che l’interpretazione della scheda testamentaria debba avvenire su un duplice livello, ossia attraverso un’indagine di tipo oggettivo, ancorata al contenuto dell’atto scritto, ma anche di carattere soggettivo, concernente quindi l’intenzione del testatore circa l’assetto patrimoniale che avrebbe voluto determinare dopo la sua morte. Nel caso in cui, all’esito di queste valutazioni, persistano dubbi, potrà farsi riferimento “anche ad elementi estrinseci alla scheda, come la cultura, la mentalità e l’ambiente di vita del testatore” (Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 24163 del 25.10.2013): auspicabilmente, attraverso questa lettura multilivello del testamento sarà possibile desumere se il testatore volesse includere il chiamato nell’universum ius, o se intendesse disporre in suo favore solo a titolo particolare.

Per esempio, indicativa dell’intenzione di nominare un erede è stata ritenuta la circostanza che con l’assegnazione di determinati beni venisse a esaurirsi la gran parte del patrimonio del testatore, o comunque la componente immobiliare costituente l’elemento di maggior valore del compendio ereditario (si veda Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 14757 del 19.07.2016, che rigettava il ricorso proposto confermando la sentenza della Corte d’Appello di Venezia). Il ragionamento è condivisibile: del resto, anche laddove il testatore avesse ‘legato’ un immobile a taluno e non risultasse essere proprietario di beni ulteriori, si tratterebbe comunque di un’istituzione di erede, perché tale disposizione mirerebbe a introdurre, di fatto, il beneficiario nell’universum ius del de cuius ai sensi dell’art. 588 c. 1 c.c. In questo caso, a nulla rileverebbe l’ipotizzabile intenzione del testatore di evitare al congiunto il pagamento dei debiti ereditari, trattandosi di una frode delle etichette che l’ordinamento non ha motivo di tutelare, bien au contraire

Parimenti, si è escluso che per potersi configurare una institutio ex re certa fosse necessario che il testatore avesse attribuito agli eredi nominati tutti i beni costituenti il patrimonio ereditario (sempre Cass. Civ. Sez. II sent. n. 14757 del 19.07.2016): del resto, la stessa formulazione dell’art. 588 c. 2 c.c., ammette che la qualità di erede possa acquisirsi pro quota con l’assegnazione di singoli cespiti ereditari. Di converso, è stato qualificato prelegatario (si definisce tale il legatario che, in virtù di ulteriori attribuzioni, è anche chiamato all’eredità in veste di erede) il soggetto che il testatore aveva indicato quale destinatario della “quota disponibile” di un‘attività commerciale svolta in forma societaria, avendo i giudicanti interpretato l’espressione ‘quota’ nel senso di porzione di uno specifico bene tra quelli facenti parte dell’asse ereditario (si veda Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 24163 del 25.10.2013, che rigettava il ricorso proposto confermando la sentenza della Corte d’Appello di Roma).

Detto ciò, appare evidente che l’interpretazione giurisprudenziale degli atti di ultima volontà abbia condotto a risultati variegati: del resto, trattandosi di valutazioni che si risolvono in apprezzamenti di fatto, non è possibile confidare in un salvifico giudizio uniformante della Corte di Cassazione. Le relative pronunce di merito sono sindacabili in sede di legittimità solo per violazione di norme di diritto per motivazione apparente ai sensi del combinato disposto degli articoli 360 n. 3 e 132 c. 2 n. 4 c.p.c., sicché la Corte Suprema deve limitarsi a verificare l’adeguatezza e la congruità della motivazione enunciata in sentenza. In conclusione, alla luce di questi recenti esiti interpretativi sembra potersi affermare che, indipendentemente dalla specificità delle espressioni usate dal de cuius per distinguere il generale dal particolare, i risultati possano variare.