Diritto all’aborto e risarcimento da nascita indesiderata: recenti approdi giurisprudenziali

La facoltà di interrompere la gravidanza è riconosciuta alla donna dalla Legge n. 194 del 22 maggio 1978, che disciplina le modalità di accesso alla relativa prestazione sanitaria individuando tre diverse situazioni ricorrendo le quali è possibile abortire. Anzitutto, l’articolo 4 contempla la possibilità di interrompere la gestazione entro novanta giorni dal concepimento laddove la donna “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica”. Le circostanze riferite devono però risultare connesse ad almeno una delle cause astrattamente ritenute idonee a fare sorgere questo rischio, tra quelle espressamente elencate nella norma: la donna deve difatti ravvisare il pericolo suddetto “in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.

Le altre due condizioni che legittimano la scelta di abortire, peraltro anche oltre il termine dei novanta giorni, sono delineate dall’articolo 6, il quale ammette l’interruzione volontaria della gravidanza (1) laddove il suo proseguimento o il parto “comportino un grave pericolo per la vita della donna”, oppure (2) quando “siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. In quest’ultima ipotesi però l’aborto è consentito solamente finché non sussista la possibilità di vita autonoma del feto (come indicato dall’articolo 7) e quindi entro il limite di 22 settimane (circa) dal concepimento.

La formulazione delle norme analizzate risente con tutta evidenza di un retaggio giusnaturalistico: è infatti apparsa indispensabile agli occhi del legislatore di quarant’anni fa la subordinazione del riconoscimento del diritto di interrompere la gravidanza all’individuazione di una situazione pericolosa per la salute della gestante che fosse quanto meno ‘seria’ e riconducibile a una delle specifiche situazioni predeterminate. In sostanza, a dispetto della manifestata volontà di volere tutelare anche la salute psichica, la legge impone alla donna di elaborare una giustificazione health-concern-oriented in merito alla propria decisione, che dovrà poi illustrare al ginecologo, con l’ovvio risultato di catalizzare ogni possibile senso di colpa: lungi dal rappresentare il risultato di una libera scelta (posto che l’art. 1 della L. 194/1978 esordisce affermando che “lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”) l’aborto viene delineato come un diritto ottriato (e imperfetto, se si considera la speculare facoltà attribuita al personale sanitario di sollevare obiezione di coscienza).

Peraltro, partendo dal presupposto che il diritto di interrompere la gravidanza spetti esclusivamente alla donna allo scopo di evitare pericoli gravi alla salute propria – e non anche a quella del nascituro – si è a lungo negato che il neonato portatore di malformazioni non tempestivamente diagnosticate nel feto a causa di errore medico potesse vantare un autonomo diritto di ottenere il risarcimento dei danni dal medico o dalla struttura sanitaria per avere questi colposamente privato la madre della possibilità di abortire (convinzione rafforzata dalla riflessione circa l’inesistenza di un ‘diritto a non nascere’). La questione è stata risolta solo recentemente da Cass. Sez. III Sent. n. 16754 del 02.10.2012 la quale ha rilevato che “la domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino portatore di handicap trovi il suo fondamento negli art. 2, 3, 29, 30, e 32 Cost. Il vulnus lamentato da parte del minore malformato, difatti, non è la malformazione in sé considerata (…) bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata intese come proiezione dinamica dell’esistenza che non è semplice somma algebrica della vita e dell’handicap, ma sintesi di vita ed handicap, sintesi generatrice di una vita handicappata”. È stato quindi dato opportuno risalto tanto alla lesione del diritto alla salute del minore (e non di un ipotetico diritto a non nascere), quanto alla lesione del diritto del medesimo alla manifestazione della propria personalità come singolo e nelle formazioni sociali, risultando evidente la violazione di entrambi i diritti costituzionalmente tutelati a causa dell’ingiusta condotta colposa del medico che, richiesto tempestivamente dalla donna di interrompere la gestazione, non ha impedito la nascita malformata.

L’architettura farraginosa delle disposizioni di cui alla L. 194/1978 ha peraltro dato spazio a numerosi dubbi interpretativi con riferimento alla possibilità per il padre di ottenere il ristoro dei danni derivanti dalla condotta colposa del medico che, non eseguendo correttamente la pratica interruttiva, o errando la diagnosi circa la salute del feto, ha provocato la nascita indesiderata.

Soprattutto, il richiamo imposto dall’art. 4 L. 194/1978 al pericolo per salute della donna porterebbe a escludere la risarcibilità dei danni consistenti negli oneri di mantenimento gravanti sui genitori a seguito di nascita indesiderata avvenuta per errore medico nell’esecuzione dell’intervento, laddove il pericolo prospettato dalla norma non si sia effettivamente concretizzato in una malattia fisica o psichica lesiva della salute della madre. Fortunatamente, un passo alla volta e facendo leva sul principio di autodeterminazione, la corte di legittimità ha riconosciuto “non solo il danno alla salute della madre ma anche quello sofferto da entrambi i genitori per la lesione della libertà di autodeterminazione, diritto che una lettura costituzionalmente orientata della L. n. 194 del 1978 consente di ricollegare ad una visione complessiva del bene salute, inteso come benessere psicofisico della persona, anche alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale”. Così si è espressa la recentissima Cass. Civ. Sez. III Ord. n. 2070 del 29.01.2018, la quale però, molto cautamente, pur riconoscendo che nel giudizio di merito il pregiudizio fosse stato “legittimamente parametrato ai presumibili importi corrispondenti alle spese da sostenere per il mantenimento della figlia” si è sentita in dovere di puntualizzare che “la fattispecie ritenuta sussistente deve essere inquadrata nell’ambito dei danni non patrimoniali”.

Curiosamente, la stessa Sezione III ha riqualificato il medesimo pregiudizio discendente dall’obbligo di sostentamento del figlio come ‘danno patrimoniale’ a distanza di una settimana dalla precedente ordinanza, quando, dovendo decidere sulla richiesta di risarcimento formulata da un padre che domandava il ristoro per le spese di mantenimento di un bambino sano, ma non voluto, ha enunciato il presente principio di diritto: “in tema di responsabilità del medico per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento della struttura sanitaria all’obbligazione di natura contrattuale spetta non solo alla madre ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi della condotta del medico ed alla responsabilità della struttura in cui egli opera, non può ritenersi estraneo il padre, il quale deve, perciò, considerarsi tra i soggetti protetti e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti, fra i quali deve ricomprendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli” (Cass. Civ. Sez. III Ord. n. 2675 del 05.02.2018).

Personalmente ritengo corretto l’iter logico seguito da quest’ultima pronuncia, nella quale, seppure implicitamente, è stata operata una distinzione concettuale tra i presupposti per il riconoscimento del diritto di abortire e il rapporto contrattuale che, a decisione presa, la donna sceglie di instaurare con un certo medico o con la struttura ove il medico opera: trattasi oltretutto di interpretazione coerente con la recente riforma legislativa che ha confermato la natura contrattuale della responsabilità derivante dall’obbligazione assunta dalla struttura sanitaria nei confronti del paziente – o dallo stesso esercente la professione sanitaria, laddove l’obbligazione sia stata assunta individualmente – per le prestazioni elargite (il richiamo è all’art. 7 Legge n. 24 del 08.03.2017).