Semper aliquid haeret (F. Bacon)
Confrontandomi con i miei assistiti e con voi lettori ho notato che viene generalmente attribuito un significato piuttosto confuso al concetto di ‘calunnia’, per cui ho deciso di spendere queste poche righe per fugare i dubbi più frequenti e per rendere più comprensibili alcuni aspetti fondamentali di questa figura criminosa.
Il reato di calunnia, punito dall’art. 368 c.p., consiste nell’attribuire la commissione di un reato a un soggetto di cui si conosce l’innocenza e può realizzarsi tramite due distinte modalità: (1) incolpando taluno di un reato mediante denuncia, querela, richiesta o istanza, anche anonima o sotto falso nome, rivolta all’autorità giudiziaria, oppure ad altra autorità che sia tenuta a riferire la notizia di reato appresa all’autorità giudiziaria, o ancora alla Corte Penale Internazionale (c.d. calunnia in forma diretta o formale), o altrimenti (2) simulando a scapito di altra persona le tracce di un reato (c.d. calunnia in forma indiretta o reale). Il delitto di calunnia si distingue da quello di simulazione di reato (art. 367 c.p.) per la presenza di un elemento specializzante costituito dall’attribuzione del fatto denunciato o simulato a un individuo determinato o determinabile che il soggetto agente sa essere innocente (c.d. direzione personale dell’incolpazione). Trattasi di reato di pericolo, non essendo richiesto l’evento dell’effettiva instaurazione di un processo nei confronti della vittima.
Il codice penale annovera il reato di calunnia tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia e pone pertanto l’accento sul potenziale spreco delle risorse dello Stato conseguenti all’acquisizione di notizie di reato infondate. La calunnia deve tuttavia reputarsi reato plurioffensivo, in quanto anche il calunniato è titolare di interessi protetti dalla norma incriminatrice: ciò emerge con chiarezza dalla lettura dei commi 2 e 3 dell’art. 368 c.p. i quali prevedono rispettivamente (A) una circostanza aggravante applicabile “se s’incolpa taluno di un reato per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave” (per la quale assume rilevanza l’onore dell’accusato) e (B) due circostanze aggravanti a effetto speciale le quali rileverebbero in presenza dell’ulteriore verificarsi di un evento ossia la condanna (1) alla reclusione superiore a cinque anni o, peggio (2) all’ergastolo (rispetto alle quali assume rilevanza la libertà personale della vittima). Inoltre, sempre avuto riguardo all’incidenza che l’accusa possa avere sull’onore della persona ingiustamente incolpata, l’art. 370 c.p. riconosce l’attenuante della natura contravvenzionale del reato prospettato tramite la simulazione o la falsa denuncia. La giurisprudenza ha tuttavia attribuito rilevanza secondaria all’onore della vittima, poiché ha escluso costantemente la configurabilità della calunnia quando il reato denunciato rientri tra quelli punibili a querela (o a richiesta o istanza) e questa difetti o sia invalida “atteso che, in detta ipotesi, la condotta risulta per tabulas, già in quel momento e non secondo una valutazione ex post, inidonea a determinare l’avvio del procedimento penale” (così, da ultimo, Cass. Pen. Sez. VI Sent. n. 335 del 09.01.2018).
Peraltro, deve rispondere di calunnia anche chi accusi qualcuno della commissione di un reato diverso e più grave di quello che l’incolpato abbia effettivamente commesso (Cass. Pen. Sez. VI Sent. n. 9874 del 09.03.2016; Cass. Pen. Sez. VI Sent. n. 35339 del 15.09.2008), mentre il reato non ricorre laddove “la diversità, non incidendo sull’essenza del fatto, riguardi soltanto modalità secondarie di realizzazione del fatto, che non ne modifichino l’aspetto strutturale e non incidano sulla sua maggiore gravità ovvero sulla sua identificazione” (Cass. Pen. Sez. V Sent. n. 32673 del 24.07.2015). È parimenti reputata calunniosa la denuncia con la quale vengano rappresentate circostanze vere, astrattamente riconducibili a una determinata figura criminosa, celando consapevolmente la concorrenza di una causa di giustificazione la cui presenza sarebbe idonea a privare di tipicità il fatto, rendendolo quindi insussistente (da ultimo, Cass. Pen. Sez. III Sent. n. 41562 del 12.09.2017).
La giurisprudenza è granitica nell’affermare che il reato sia a forma libera, non solo per quanto concerne la calunnia indiretta, che può palesemente perfezionarsi con qualsiasi condotta idonea a simulare le tracce di un reato, ma anche per quella diretta. Per sostenere questa teoria si è voluto fare leva sul fatto che, in base alla previsione normativa, assuma rilevanza tanto la denuncia anonima quanto “qualunque atto rivolto ad una pubblica autorità che sia tenuta, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., a denunciare all’autorità giudiziaria la notizia di reati perseguibili d’ufficio” (Cass. Pen. Sez. VI sent. n. 30297 del 10.09.2002) e si è altresì affermato che il delitto possa configurarsi anche mediante incolpazioni indirette, come, ad esempio, l’accusa intrinseca di avere falsificato una firma risultante dalle difese svolte nel corso di un processo civile (Cass. Pen. Sez. VI Sent. n. 7643 del 25.02.2010), privando implicitamente di significato la menzione nella norma incriminatrice degli atti di “denunzia, querela, richiesta o istanza“, ossia di quelle modalità di impulso processuale previste specificamente dagli articoli 333, 336, 341 e 342 del codice di procedura penale. Infatti, per la giurisprudenza “ai fini della configurabilità del delitto di calunnia non occorre una denuncia in senso formale, essendo sufficiente che taluno, rivolgendosi in qualsiasi forma all’autorità giudiziaria ovvero ad altra autorità avente l’obbligo di riferire alla prima, esponga fatti concretanti gli estremi di un reato, addebitandoli a carico di persona di cui conosce l’innocenza” (Cass. Pen. Sez. VI Sent. n. 44594 del 29.11.2008).
Questa lettura omogeneizzante dell’art. 368 c.p. ha reso necessario un ulteriore apporto chiarificatore per il caso in cui le dichiarazioni accusatorie provengano da un soggetto indagato o imputato il quale, nel corso di un interrogatorio o di un esame, le pronunci allo scopo di discolpare se stesso: il problema si è posto infatti nel valutare la possibilità di riconoscere la sussistenza della scriminante di cui all’art. 51 c.p. in relazione al c.d. diritto di mentire dell’imputato. Sul punto si è formato un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato il quale ritiene che “in tema di rapporto tra diritto di difesa e accuse calunniose, l’imputato, nel corso del procedimento instaurato a suo carico, può negare, anche mentendo, la verità delle dichiarazioni a lui sfavorevoli, ma commette il reato di calunnia quando non si limita a ribadire la insussistenza delle accuse a lui addebitate, ma assume ulteriori iniziative dirette a coinvolgere l’accusatore – di cui pure conosce l’innocenza – nella incolpazione specifica, circostanziata e determinata di un fatto concreto” (si veda ad es. Cass. Pen. Sez. VI Sent. n. 51912 del 14.11.2017; Cass. Pen. Sez. VI sent. n. 18755 del 06.05.2015; Cass. Pen. Sez. I sent. n. 26455 del 18.06.2013).
Dalla lettura congiunta dei principi sopra esposti deve dunque concludersi che l’indagato e l’imputato rispondano del delitto di calunnia qualora per discolparsi incolpino terzi innocenti di avere commesso un reato, a meno che questi terzi vengano accusati del reato di cui all’art. 371 bis c.p. (false informazioni al pubblico ministero o al procuratore della Corte penale internazionale) o di quello di cui all’art. 372 c.p. (falsa testimonianza), perché in tal caso, se l’affermazione della falsità delle dichiarazioni non viene arricchita da ulteriori circostanze false volte a confermare l’inattendibilità delle informazioni acquisite, dovrebbe sempre configurarsi la scriminante dell’esercizio del diritto di difesa, che prevarrebbe tanto sull’interesse a perseguire penalmente lo sviamento dell’amministrazione della giustizia, quanto sull’interesse a punire la lesione dell’onore. Ma è corretto affermare che l’ordinamento italiano, oltre a riconoscere all’indagato e/o all’imputato, come corollario del diritto di difesa, il diritto di mentire (peraltro indirettamente, sul presupposto che manchi per tali soggetti l’obbligo di dire la verità), intenda addirittura tutelarlo?