Presunzione di paternità e alterazione di stato: come trasformare un semplice errore in un reato complesso

Prima delle modificazioni apportate al diritto di famiglia dal D.Lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, entrato in vigore il 07 febbraio 2014, la presunzione di paternità di cui all’art. 231 c.c. operava laddove il concepimento del figlio fosse avvenuto durante il matrimonio: per determinare se sussistesse questo presupposto attributivo di status occorreva fare ulteriore riferimento alla presunzione di concepimento di cui all’art. 232 c.c., in base alla quale il figlio si reputava concepito in costanza di matrimonio se la nascita avveniva dopo che fossero trascorsi centottanta giorni dalla celebrazione del matrimonio e prima che fossero decorsi trecento giorni dall’annullamento o scioglimento del matrimonio. Criticato in precedenza di essere espressione di un approccio etico del legislatore, anziché pratico (quasi a volere sottintendere la naturale infedeltà delle coppie non ancora sposate, se non addirittura l’immoralità dei rapporti sessuali prematrimoniali), l’art. 231 c.c. attualmente prevede che la presunzione di paternità operi sia per i figli concepiti nel matrimonio che per quelli venuti alla luce durante il matrimonio.

La riforma, all’apparenza frutto dello spirito di adattamento del legislatore rispetto al mutato contesto sociale, nasconde in realtà un’insidia: è infatti ovvio che, ampliando l’ambito di applicazione della presunzione di paternità – la quale può successivamente venire meno solo a seguito del fruttuoso esperimento di un’azione di stato (ossia disconoscimento di paternità, reclamo o contestazione dello stato di figlio) si riduca automaticamente la possibilità per i genitori naturali di effettuare il riconoscimento del figlio, concepito, o anche solo nato, da madre con altri coniugata.

Si osserva a questo proposito che tuttora, ai sensi dell’art. 243 bis c.c. l’azione di disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio possa essere esercitata esclusivamente dal marito, dalla madre e dal figlio stesso (al contrario dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità che invece, ai sensi dell’art.263 c.c., può essere promossa da chiunque vi abbia interesse). Il padre biologico, al quale non è quindi riconosciuta legittimazione attiva, potrà solamente, come in passato, sollecitare il pubblico ministero alla nomina di un curatore speciale ai fini dell’instaurazione di un procedimento volto al disconoscimento del padre presunto, fino al raggiungimento del quattordicesimo anno di età del figlio. Difatti, l’art. 244 u.c., dapprima modificato dalla L. 4 maggio 1983 n. 184 e di recente interessato anch’esso dalle modifiche apportate dal D.Lgs. 28 dicembre 2013 n. 154 con l’introduzione della possibilità che il curatore speciale sia nominato, oltre che su istanza del figlio quattordicenne (o del P.M. se di età inferiore) anche su istanza “dell’altro genitore” è stato curiosamente interpretato nel senso che debba intendersi ‘altro genitore’ quello che non verrebbe colpito dall’azione di disconoscimento che si vorrebbe instaurare … In pratica il non-padre, o più semplicemente, la madre.

Il problema risiede nel fatto che la richiesta formulata dal padre biologico non garantisce alcun risultato concreto, perché il pubblico ministero potrebbe ritenere inopportuno attivarsi: tale scelta (tutt’altro che sporadica) viene nella quasi totalità dei casi giustificata dalla finalità di evitare uno stravolgimento dei rapporti affettivi del minore, con riguardo al prevalente interesse dello stesso. Questa formula di stile, oltre a non tenere presente che la fase del c.d. stravolgimento non verrebbe scongiurata, ma verosimilmente solo rinviata, altresì tradisce un anacronistico favor legitimitatis il quale, forse involontariamente, è però stato confermato dalla riforma, che come si è visto ha esteso il campo applicativo della presunzione di paternità: non vi è dubbio che il padre biologico – il quale potrebbe essere persona integerrima, magari anche all’oscuro dello stato civile della madre al momento del concepimento – sia guardato con estrema diffidenza dal legislatore, che lo ha posto di fronte a un vero e proprio percorso ad ostacoli, quasi come se il desiderio di essere genitore fuori del matrimonio necessitasse di essere messo alla prova.

Non può neppure trascurarsi la rilevanza penale della condotta del genitore che, consapevole della diversa paternità del figlio frutto di relazione extra coniugale, lo faccia figurare come nato nel matrimonio, realizzando così il reato di alterazione di stato. Tale figura delittuosa è descritta dall’art. 567 c.p. che delinea due diverse ipotesi di reato: la prima, prevista dal primo comma, si configura quando venga alterato lo stato civile di un neonato mediante la sua sostituzione con altro e quindi attraverso una condotta tenuta successivamente alla formazione dell’atto di nascita; la seconda ipotesi delittuosa contempla invece proprio il caso in cui lo stato civile del neonato sia alterato “nella formazione di un atto di nascita”, mediante false certificazioni, false attestazioni o “altre falsità”, atteggiandosi quindi come reato complesso di cui la fattispecie criminosa prevista dall’art. 495 c.p. (falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri) rappresenta un elemento costitutivo.

Si esclude intanto che la rilevanza della norma penale sia da circoscrivere al caso in cui il figlio sia nato fuori del matrimonio: l’art. 567 c. 2 c.p. tutela l’interesse del minore alla verità dell’attestazione ufficiale della propria ascendenza, con riguardo sia alla filiazione legittima (ora: nel matrimonio) che a quella naturale (ora: fuori del matrimonio) poiché mira a prevenire la difformità tra lo stato reale del neonato e quello derivante dal falso operare dell’agente (in questo senso si veda, ad es. Cass. Pen. Sez. VI, 30 gennaio 1991 n. 1064, Cass. Pen. Sez. VI, 21 aprile 1994 n. 4633).

Va a questo punto rilevato che, anche quando sussista una presunzione di paternità, lo status di genitore non viene attribuita al marito della puerpera automaticamente con la procreazione, ma solo con la costituzione dell’atto di nascita: ai sensi dell’art. 236 c.c. “la filiazione si prova con l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile”. Neppure questo documento si crea in automatico, ma ai fini della sua formazione è necessaria una dichiarazione di nascita (art. 29 D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396) compiuta indifferentemente da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, ma in ogni caso “rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata” (art. 30 D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396). È indubbio che, avvalendosi di tale facoltà, la presunzione di paternità non opererebbe: escluso il rischio di un’attribuzione di stato non veritiera, la madre potrebbe direttamente riconoscere il figlio, come ammesso espressamente dall’art. 250 c.c. e altrettanto potrebbe fare il genitore biologico. In ogni caso, al momento della dichiarazione la madre è libera di precisare che il figlio sia nato fuori del matrimonio e anche in questo modo il rischio di una mendace attribuzione di stato sarebbe scongiurata.

È quindi erroneo ritenere che la configurazione del suddetto reato, peraltro procedibile d’ufficio, debba escludersi se l’alterazione dello stato dipenda dall’operare della presunzione di paternità: l’ipotesi di cui all’art. 567 c. 2 c.p. si realizza ogni volta che, in un atto di nascita, venga attribuito a un neonato lo stato di figlio di una persona che non lo abbia realmente generato. Pertanto, il delitto viene commesso anche da chi dichiari il neonato essere figlio di donna coniugata, nella consapevolezza che il marito della stessa non sia il padre, determinando così la formazione di atto di nascita di figlio nato nel matrimonio e facendo risultare il marito genitore a causa della presunzione di paternità (in questo senso, Cass. Pen. Sez. VI, 3 luglio 1989). Conseguentemente è ipotizzabile il concorso nel reato del marito consenziente, il quale, pur sapendo di non essere genitore, incoraggi la madre a rendere una dichiarazione di nascita in base alla quale il figlio risulti essere nato nel matrimonio: l’art. 110 c.p. funziona infatti come norma integratrice che estende la punibilità a chiunque concorra, materialmente o moralmente, con adeguata efficienza causale, nell’evento tipico realizzato dall’autore della dichiarazione che altera lo stato del neonato (Cass. Pen. Sez. VI 30 giugno 2009 n. 32854).

Quanto alla rilevanza delle finalità per cui il reato viene commesso, anche di recente il giudice di legittimità si è espresso nel senso che, ai fini della configurazione del delitto di alterazione di stato mediante falso, sia richiesto il dolo generico e quindi la consapevolezza del soggetto agente della falsità della dichiarazione, la volontà di effettuarla e la previsione dell’evento consistente nell’attribuzione al neonato di uno stato civile diverso da quello che gli spetterebbe secondo natura, con la conseguenza che l’intenzione di favorire il neonato attribuendogli un genitore diverso da quello biologico possa essere valutata solo per l’eventuale concessione dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 1 c.p. (Cass. Pen. Sez. VI, 30 ottobre 2014 n. 51662, che ha annullato con rinvio App. Milano 25 gennaio 2013).