Nonostante sia solita prestare molta attenzione a quello che prelevo dagli scaffali del supermercato, ispezionando e annusando i prodotti, talvolta capita anche a me di gettare frettolosamente tutto nel carrello, col risultato di ritrovare in frigo o in dispensa alimenti scaduti o addirittura ammuffiti, seppure appena acquistati. Confrontandomi con gli amici ho scoperto che non sono così sporadici nemmeno i casi di intossicazioni collettive dopo una cena al ristorante, che spesso si rinuncia a segnalare ripromettendosi semplicemente di non fare più ritorno al locale. Dobbiamo accettare questi episodi come banali imprevisti? In realtà non vi è motivo di tollerare l’incuria dei rivenditori e dei ristoratori, posto che frequentemente inconvenienti di questo tipo sono conseguenti al mancato rispetto di regole cautelari note a tutti e non di semplici sviste: del resto anche il legislatore ha rivolto particolare attenzione a situazioni di questo genere, scegliendo di reprimerle penalmente.
L’art. 5 della Legge 30 aprile 1962 n. 283 infatti vieta, insieme ad altre condotte, l’impiego nella preparazione di alimenti e bevande, la vendita, la detenzione per la vendita o la somministrazione ai dipendenti, o comunque la distribuzione per il consumo di sostanze alimentari che si trovino “in cattivo stato di conservazione” (lett. B) o che siano “insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione” (lett. D). Il terzo comma dell’art. 6 L. 283/1962 sanziona poi chi contravviene ai suddetti divieti con la pena alternativa dell’arresto o dell’ammenda, prevedendo limiti edittali più contenuti per la semplice cattiva conservazione (arresto fino a un anno o ammenda da € 309 a € 30.987) rispetto ai casi di insudiciamento, contaminazione biologica, alterazione o nocività (arresto da tre mesi a un anno o ammenda da € 2.582 a € 46.481). Invece, nel caso in cui un prodotto messo in vendita sia semplicemente scaduto, ma intatto, deve ravvisarsi la sussistenza dell’illecito amministrativo di cui all’art. 12 c. 3 D.Lgs. 15.12.2017 n. 231, che prevede la condanna al pagamento una sanzione pecuniaria (variabile da € 5.000 a € 40.000). Ma soffermiamoci sulle condotte penalmente perseguibili.
Anzitutto, la cattiva conservazione del prodotto vietata dall’art. 5 lett. B L. 283/1962 può ravvisarsi tanto nell’ipotesi più ovvia in cui i prodotti facilmente deperibili vengano posizionati su scaffali anziché in espositori refrigeranti o nei banchi frigo, tanto nel caso in cui generi alimentari diversi siano conservati in modo promiscuo (per esempio, carne, pesce e verdure collocati all’interno di un unico congelatore con sacchetti lasciati aperti), in quanto trattasi di modalità di conservazione inidonee a garantire che il singolo elemento mantenga inalterate le caratteristiche tipologiche che lo contraddistinguono (in questo senso Cass. Pen. Sez. III sent. n. 41074 del 11.11.2011 e Cass. Pen. Sez. III sent. n. 40554 del 01.10.2014). È stato difatti chiarito che “ai fini della configurabilità della contravvenzione prevista dall’art. 5 lett. B L. 30 aprile 1962 n. 283, lo stato di cattiva conservazione, potendo concernere sia le caratteristiche intrinseche che le modalità estrinseche di conservazione del prodotto, riguarda quelle situazioni in cui le sostanze, pur potendo essere ancora genuine e sane, si presentano mal conservate, e cioè preparate, confezionate e messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dirette a prevenire pericoli di una precoce alterazione, contaminazione o degradazione intrinseca del prodotto” (Cass. Pen. Sez. III sent. n. 35234 del 21.09.2007).
Il reato, indubbiamente ‘di condotta’ e a mio avviso palesemente ‘di pericolo’, potendo il prodotto essere perfettamente commestibile, seppure mal conservato, era stato in realtà ritenuto ‘di danno’ da una datata pronuncia a Sezioni Unite che aveva ravvisato il bene giuridico protetto non nella salute del consumatore, quanto nell’interesse dello stesso “a che il prodotto giunga al consumo con le cure igieniche imposte dalla sua natura” e quindi al rispetto del c.d. ordine alimentare (Cass. Pen. S.U. sent. n. 443 del 09.01.2002). Questa interpretazione mi sembra alquanto astrusa, a partire dal fatto che scopo della Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande – contenuta appunto nella L. 283/1962 – risulti essere la “tutela della pubblica salute“, almeno in base a quanto si legge nel primo comma dell’articolo 1 della legge, ma anche perché ragionando nei termini della sentenza citata qualsiasi reato di pericolo potrebbe interpretarsi come reato di danno.
Per esempio, se si decidesse che il bene giuridico protetto dal reato di minaccia non sia la libera determinazione del soggetto passivo (c.d. libertà morale), ma l’interesse del medesimo a vivere senza turbative da parte di terzi, potrebbe ravvisarsi anche nella minaccia un reato di danno e conseguentemente l’estorsione finirebbe col diventare un reato di ‘triplo danno’ articolato nel danno alla p.o. di essere stata turbata, in quello ulteriore essere stata costretta, ossia di non essersi effettivamente autodeterminata (evento tipico del reato di violenza privata) e infine nel danno in senso stretto consistente nella perdita cui corrisponde l’altrui ingiusto profitto, con il risultato che la distinzione tra reato di pericolo e reato di danno diventerebbe del tutto inutile. Si dà atto che anche la giurisprudenza di legittimità e di merito successiva alla pronuncia citata ha più o meno esplicitamente preso le distanze dalla lettura della norma penale prospettata dalle Sezioni Unite, ritenendo quello di cui all’art. 5 lett. b L. 283/1962 un reato di pericolo presunto (si veda da ultimo Cass. Pen. Sez. III sent. n. 39037 del 28.08.2018).
Passando ad aspetti più pratici, va detto che la corte di legittimità abbia immediatamente riconosciuto l’applicabilità del recente istituto di cui all’art. 131 bis c.p. al reato di cattiva conservazione, per cui episodi isolati e poco significativi in termini di condotta e di rischio per la salute potranno essere dichiarati non punibili, come ha ritenuto Cass. Pen. Sez. III nella sentenza n. 40355 del 08.10.2015, con riferimento a un caso di esposizione al sole di 5 kg di pesce.
Ricade invece nel divieto di cui all’art. 5 lett. D L. 283/1962 la vendita di prodotti ittici infestati da larve di Anisakis: il fatto che la presenza di questo parassita all’interno dei pesci costituisca una condizione naturale – in quanto la larva viene ingerita direttamente dal crostaceo che a sua volta viene fagocitato dal pesce ove si sviluppa – deve ritenersi del tutto irrilevante, poiché la legge esclude la commerciabilità di prodotti invasi da parassiti a prescindere dalle modalità con cui essi si insedino nella sostanza alimentare (oltretutto, a conferma della pericolosità derivante da situazioni di questo genere, il Reg. CE 1020/2008, modificando l’allegato III sez. VIII del Reg. CE 853/2004, ha esteso gli obblighi di controllo circa la presenza di parassiti nei ‘prodotti della pesca’ anche alla vendita al dettaglio).
Anche in questo caso il legislatore ha delineato un reato di pericolo, ma concreto, stante la necessità di riscontrare sull’alimento la presenza di agenti patogeni (si veda Cass. Pen. Sez. III sent. n. 12454 del 24.03.2016). Va evidenziato che la norma alla lett. D svolge anche una funzione di chiusura, poiché oltre ai casi espressamente previsti sanziona l’impiego, la detenzione al fine di vendita, la somministrazione o la vendita di sostanze alimentari “comunque nocive”, rendendo quindi punibili condotte non visibili a occhio nudo, come la vendita di pesce avente quantità di mercurio superiori al limite consentito: Cass. Pen. Sez. III sent. n. 7383 del 19.02.2015 ha al riguardo osservato che “ciò che conta è la potenzialità lesiva di un ripetuto consumo di cibo contenente sostanze non autorizzate, che pur essendo innocue in piccole percentuali, possono divenire dannose se assunte in quantità maggiore. Il superamento dei limiti di concentrazione del mercurio fissati dalla legge è, dunque, da solo sufficiente ad integrare sul piano oggettivo la contravvenzione contestata”.
Per quanto concerne l’elemento psicologico rilevante ai fini della configurazione dei reati di cui agli art. 5-6 L. 283/1962, trattandosi di contravvenzioni, la condotta viene punita indistintamente sia a titolo di dolo che di colpa, mentre si esclude che possa sussistere una responsabilità oggettiva: anzitutto, pur essendo la sanzione applicabile sia ai produttori che ai rivenditori, questi ultimi non possono essere ritenuti colpevoli se dimostrano di non avere avuto la possibilità di controllare la qualità e la condizione della merce posta in vendita, come nel caso di prodotti erogati da distributori automatici appartenenti a terzi, della cui conservazione risponde pertanto il proprietario (in questo senso, Cass. Pen. Sez. III sent. n. 19026 del 02.05.2013). Nella stessa ottica garantista la giurisprudenza nettamente dominante esclude la responsabilità del legale rappresentante di un’impresa articolata in più unità territoriali, laddove ciascuna di esse sia affidata a un soggetto qualificato e investito di mansioni direttive, dal momento che “la responsabilità del rispetto dei requisiti igienico-sanitari dei prodotti va individuata all’interno della singola struttura aziendale, non essendo necessariamente richiesta la prova dell’esistenza di una apposita delega” (Cass. Pen. Sez. III sent. n. 44335 del 03.11.2015).
Inoltre, per espressa previsione legislativa, non risponde dei reati illustrati il commerciante che vende, pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo prodotti in confezioni originali, se la mancata osservanza delle previsioni legislative concerne “i requisiti intrinseci o la composizione dei prodotti o le condizioni interne dei recipienti” purché la confezione originale non appaia alterata e il commerciante ignori la sussistenza della violazione (art. 19 L. 283/1962).
Va però osservato che per consolidata interpretazione giurisprudenziale l’esimente di cui all’art. 19 L. 283/1962 non opera quando la sostanza alimentare sia stata confezionata all’estero e provenga quindi “da un produttore straniero del quale non vi è la certezza che sia obbligato a osservare tutte le prescrizioni imposte dalla legge italiana per prevenire il pericolo di frode o di danno alla salute del consumatore: in tale ipotesi, infatti, colui che commercia il prodotto sul territorio nazionale non può ritenersi legittimato a presumere l’adempimento di obblighi giuridicamente inesistenti a carico del produttore” (Cass. Pen. Sez. III sent. n. 17547 del 07.05.2010, Cass. Pen. Sez. III sent. n. 7383 del 19.02.2015). Ne deriva che l’importatore sia tenuto a verificare la conformità del prodotto alla normativa sanitaria con controlli tali da garantirne la qualità, anche qualora la merce giunga nel Paese di destinazione in confezioni già sigillate e pronte alla vendita.
In ogni caso, alla condanna per i fatti di cui sopra può accompagnarsi una pesante sanzione accessoria: l’art. 12-bis L. 283/1962 attribuisce al giudice la facoltà di disporre “la chiusura definitiva dello stabilimento o dell’esercizio e la revoca della licenza, dell’autorizzazione o dell’analogo provvedimento amministrativo che consente l’esercizio dell’attività” laddove (1) reputi il fatto di particolare gravità e da esso sia derivato “pericolo per la salute”, ma anche nell’ipotesi in cui (2) il fatto sia stato commesso da persona già condannato con sentenza irrevocabile per reati concernenti la violazione delle norme in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande, nonché quando (3) il fatto configuri un reato più grave di quelli delineati dalle contravvenzioni analizzate (le quali in tal caso non potrebbero contestarsi in virtù della clausola di riserva di cui all’art. 6 L. 283/1962, che esclude questa possibilità).